Cercai di racimolare quelle poche forze che mi erano rimaste. Indossai il soprabito e uscii senza sapere esattamente dove andare. Camminai a lungo, tanto per smaltire quel po’ di sbronza che mi era rimasta in corpo. Ma non mi bastava. Avevo bisogno di altro, di qualcosa che mi tenesse occupata la mente almeno per qualche ora.
Vidi un taxi in sosta. Lo chiamai e gli dissi di portarmi verso il quartiere a luci rosse, verso quel mondo degradato che avevo sempre guardato con disprezzo ma a cui sentivo di appartenere come uomo, come essere, come un animale indegno della propria specie.
Vi era poca gente per strada, l’ora era tarda. Era quel momento della notte in cui, in giro, si incontrano solo personaggi ambigui e solitari. In sottofondo si udiva la musica stanca di qualche locale che, nell’atmosfera triste e malinconica di chi non ha fretta di ritornare alla solitudine della propria esistenza, cerca di cullarne la mestizia. Una leggera nebbiolina faceva da cornice a un quadro già di per sé fosco. Alcune voci invitanti, come il suadente canto delle sirene, richiamavano dai vicoli bui l’attenzione di pescatori solitari.
Entrai in uno di quei locali che raccolgono la parte meno nobile della città. Una lenta musica jazz faceva da ninna nanna a qualche triste avventuriero appartato in compagnia della propria solitudine, mentre altri colmavano il vuoto della propria esistenza con le attenzioni di una qualche giovane soubrette. Altri ancora, probabilmente uomini d’affari, approfittavano della lontananza da casa per ritrovare quelle gioie di una gioventù passata ormai sopite da anni di matrimonio.
Alcune ballerine, stanche e svogliate, chiacchieravano tra loro al bancone del bar dove un cameriere di mezz’età le ascoltava come un buon padre di famiglia.
Una cappa di fumo, segno della vitalità di poche ore prima, si addensava sul soffitto creando un’atmosfera triste e grigia. Nell’aria, l’odore del tabacco bruciato si mescolava a quello trasudato da centinaia e centinaia di corpi eccitati. Un odore acre e pesante di desideri interrotti o clandestinamente soddisfatti. Un covo di perdizione per anime dannate, ma che ai fini sociali funge da valvola di sfogo meglio di una qualsiasi terapia antidepressiva.
"Non è di certo un posto per persone per bene", mi dicevo. "Ma che ne sanno, poi, i moralisti? Che ne sanno, loro, di cos’è giusto o sbagliato, morale o immorale? La morale è una regola di condotta, derivata dall’umana presunzione, che varia a seconda delle mode e dei tempi seguendo quelli che sono perlopiù i capricci di chi dovrebbe sovraintendere alla cura dell’anima..."
Sedetti al bancone del bar e ordinai qualcosa da bere.
"Perso per perso, François, tanto vale finire la serata affogando i dispiaceri nell’alcol..", conclusi alla fine. L’indomani, a mente fredda, avrei riconsiderato tutta la mia vita.
Stavo bevendo in solitudine quando si avvicinò una di quelle ballerine che erano dall’altro capo del bancone. Mi chiese se mi andava di offrirle da bere. La guardai per un istante, era giovane e bella. I suoi occhi avevano la luce del paradiso, ma le sue labbra il colore dell'inferno. Le dissi di accomodarsi e di ordinare quello che voleva.
Si chiamava Michelle, ma con ogni probabilità non era il suo vero nome. Era belga. Come molte giovani ragazze che lavorano in quegli ambienti, mi disse che quel lavoro le serviva per pagarsi gli studi all’università. Quasi sicuramente non corrispondeva al vero, ma lo poteva anche essere, in fin dei conti. Del resto, a questo mondo non tutti hanno le stesse possibilità, e cosa ne sappiamo noi che ci alimentiamo di pregiudizi delle vite altrui?
Dimenticai subito queste sconclusionate elucubrazioni e mi abbandonai alla sua piacevole compagnia. Trovavo interessante parlare con lei. Conversammo a lungo, e bevemmo altrettanto, almeno io, dato che a lei non era concesso di bere alcolici.
A un certo punto cominciò a farsi più vicina, più provocante. Mi chiese se mi andava di andare con lei in un separé. Lì, si sarebbe spogliata per me e, se lo avessi desiderato, mi avrebbe fatto un bel regalo.
Dopo averci riflettuto per un attimo, le dissi: «D’accordo. Perché no?»
Prima di avviarci fece un cenno al barista che si mise a preparare un secchiello con del ghiaccio per lo champagne.
All’interno del camerino vi erano delle poltroncine in pelle nera, un tavolino basso dello stesso colore, una lampada a muro di cui si poteva regolare l’intensità della luce, e tutt’attorno degli spessi drappeggi rosso scarlatto per garantire la massima riservatezza ai suoi occupanti. La moquette, dello stesso colore dei drappeggi, era tutta piena di buchi provocati da mozziconi di sigaretta. Nell’insieme, uno stile raffinato ed elegante che aveva indubbiamente conosciuto tempi migliori, ma che ora denotava tutta la decadenza di un’epoca passata.
Michelle cominciò la sua danza e il provocante gioco di seduzione che avrebbe corrotto anche il più integerrimo degli uomini di fede. Quando fu quasi del tutto nuda, con addosso solo una culotte di raso bianco, si sedette sulle mie ginocchia. Mi invitò a toccarle i seni, a dirle che era bellissima, la più bella di tutte. Mi chiese poi che cosa mi sarebbe piaciuto facesse. Le risposi: «Quello che vuoi...»
Scivolò giù, fino alle ginocchia. Mi slacciò i pantaloni. La testa, già confusa da tutto l’alcol ingerito, cominciò a pulsarmi in modo convulso.
Presi Michelle per le braccia chiedendole fino a che punto potevo spingermi. Lei, osservandomi con quei suoi occhioni azzurri, mi rispose fin dove volevo, dipendeva dalla mia generosità.
«La mia generosità non ha limiti» replicai.
«Allora, puoi anche sfilarmi l’ultimo indumento che ho addosso...» mi sussurrò all’orecchio...